Dopo tanti anni che faccio questo lavoro, posso dire che le persone che sono state più contente del loro miglioramento o della loro guarigione, che in genere sono stati anche più brevi, sono quelle per cui era in atto una reale collaborazione tra lo psicoterapeuta e il medico. E’ forse con l’età, oltre che con l’esperienza professionale, che si impara ad apprezzare l’utilità e la necessità etica e deontologica di cercare proficue intese, con la consapevolezza di condurre terapie che hanno più fronti, ma anche per la fertile condivisione di una più ampia esplorazione dei fattori ezio-pato-genetici di un disturbo o malattia. Parlerei anche del “gusto professionale” dell’interdisciplinarietà.

La vita emozionale esiste: condiziona le nostre funzioni psichiche e fisiche sia in senso positivo che negativo. La nostra mente e il nostro corpo rappresentano la nostra storia. Noi non ricordiamo tutto della nostra storia, ma siamo fatti di quella. Le persone hanno bisogno di stare bene, ma anche di “sentirsi bene” ed accolte nei loro disturbi e dolori. Il dilagare di mestieri pseudo-medici e pseudo-psicologici fa i danni che vediamo poi nei nostri studi. Le persone però cercano aiuto e non si fermano finchè non stanno bene. Purtroppo hanno ragione ma buttano denaro e salute per cose senza basi scientifiche e a volte pericolose, che sono però accoglienti e per un breve tempo consolanti. Penso che dobbiamo fare e offrire qualcosa di più. La cultura professionale non può che migliorare incontrando le discipline limitrofe. Se non lo fanno i medici e gli psicologi, succede che sempre di più lo fanno i pazienti, cadendo nel vuoto che si crea tra i due.

Ai pazienti dico di rinnovare la loro fiducia nelle possibilità di cura: da una parte considerando lo psicologo una figura che può dare una nuova direzione all’attenzione a sè e ai propri disturbi e dall’altra interpellando il proprio medico rispetto a positive collaborazioni per il proprio benessere.